Fino all’ultimo momento, non era certo l’argomento da trattare in questo terzo episodio della rubrica senza peli sulla lingua. Di notizie preoccupanti ne sono uscite parecchie, questa settimana, e con ogni probabilità troverete degli speciali che approfondiranno alcune questioni spinose molto presto. C’è però una news dalla quale vorrei partire per poter sviluppare un discorso che mi preme affrontare in particolar modo, ossia quello legato alla preoccupante crisi di idee e di identità che sta colpendo la più importante fascia di produttività di questo settore: i colossi che sfornano puntualmente i cosiddetti titoli tripla A.
Il fatto della settimana è lo sbandieramento ai quattro venti del budget di sviluppo di Watch Dogs, costato ben cinquanta milioni di euro (ai quali andranno aggiunte ulteriori spese per il marketing e la distribuzione). Prima del rinvio, il gioco costava quindici milioni in più, ma evidentemente c’è stata una fase di ottimizzazione che ha permesso di smaltire del lavoro considerato in eccesso. Oppure, semplicemente si è deciso di trasformare una porzione di gioco in un contenuto scaricabile da vendere a parte, tagliuzzando qua e là. Ma non ci interessa, non è questo il punto.
Gli spettacoli ci costano, ma potrebbero non piacervi
Nonostante il discusso rinvio – che spero sia salutare per la nuova creatura di Ubisoft – e i dubbi legittimi che mi sentii di esprimere in
questa anteprima, trovo che ci sia qualcosa di completamente sbagliato e forzato nel voler dire quanto è costato il proprio progetto. Mettiamo da parte GTA V e le sue cifre faraoniche, perché in quel caso parliamo di un fuoriclasse che è riuscito a far rientrare in cassa e in pochi giorni il denaro speso, e soprattutto perché i numeri reboanti facevano parte di un nuovo record da poco raggiunto. Nonostante ciò, far sapere a tutti i costi di produzione è un modo come un altro per avvertire gli utenti che il proprio prodotto sarà una vera bomba e che riuscirà a stupire, appassionare e lasciar un segno indelebile nelle vite di tutti. Perché se ti sto dicendo che ho speso fior di quattrini per il mio progetto, ti sto automaticamente avvertendo che non solo al suo interno ci saranno degli spettacolari giochi d’artificio, ma ti sto facendo pensare che siano anche i migliori che tu abbia mai visto. È un modo per creare hype, per promettere la luna, per vendere. Qualche tempo fa ci si riusciva molto facilmente anche con costi contenuti e senza straparlare, ma in questo preciso momento storico c’è una grandissima difficoltà a tramutare degli splendidi discorsi in delle realtà granitiche pregne di ottime idee. Si fa una fatica immane perché i giochi costano sempre di più e per coprire quei costi non ci si permette di prendersi dei rischi a livello di inventiva, trasformando di conseguenza le proprie opere in dei calderoni dove gli ingredienti principali sono nostro malgrado sempre i soliti. Peccato che col tempo questi ingredienti siano divenuti di qualità sempre più scadente e i consumatori se ne stiano accorgendo con non poco disgusto, anche chi è abituato a mangiare a oltranza sempre la solita minestra – a volte anche terribilmente fredda. Investire fior di quattrini per un titolo tripla A senza avere lo straccio di un’idea – non dico ottima e geniale, ma quantomeno buona – significa tirare a campare fin quando ti va bene e fin quando gli utenti non cominciano a sentirsi presi seriamente in giro.
Perché le saghe di successo, a un certo punto, vanno a farsi benedire e perdono la propria rotta andando irrimediabilmente alla deriva? Perché vengono trascinate per i capelli anche quando ormai non hanno davvero più nulla da dire e sono stanche, vecchie e artritiche; si chiede loro di partecipare a delle incredibili maratone, quando a malapena sono in grado di deambulare. Però il marchio tira, si sa, e quindi ci si sente autorizzati a sfregiare la tela di quel capolavoro e riempirla col fango. E il più delle volte, ovviamente, non funziona. Ecco quindi che arriva il tempo dei bilanci, dei rimpasti aziendali, dei “salvifici” tagli al personale; arriva il tempo in cui la chiusura di un anno fiscale fa segnare delle percentuali molto negative, dove le fantasiose proiezioni di vendita cozzano con una realtà dei fatti cinica e – questa sì – meritocratica. Arriva, in definitiva, il momento di chiudere baracca. Analizzando la situazione a partire dalla generazione che si è appena conclusa, il numero delle software house estinte è veramente spaventoso e allarmante, ma è anche la cartina di tornasole di un sistema vittima di alcune logiche ormai desuete e incapaci di allinearsi alle esigenze di un mercato che è indiscutibilmente cambiato, da allora.
Per il fare il legno, ci vuole un albero
Quando la produzione mainstream si incaglia, mandando in crisi oltre la metà delle aziende prima considerate leggendarie e affidabili, allo stesso tempo arriva il momento della rivoluzione che parte dal basso e scombina i piani un po’ a tutti, mutando la scala dei valori e mettendo in discussione con concetti semplici e idee valide un’intera industria. Gli sviluppatori indipendenti hanno di fatto riaperto un ciclo che doveva necessariamente ricominciare, come quei corsi e ricorsi storici di cui parlava Vico tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700. La dura lezione di fondo che è stata impartita a chi si è improvvisamente trovato a gambe all’aria per eccessiva stupidità, è che il successo monetario, di critica e pubblico può arrivare anche se il budget a disposizione equivale a zero e se a lavorare a un progetto è una sola persona. Certo, si tratta indubbiamente di una visione molto romantica della programmazione moderna, ma va ammesso che in un certo senso è esattamente così. Tuttavia, abbiamo il bisogno di avere sia i titoli indie, sia quelli più impegnati, che riescono a far fare un poderoso balzo in avanti all’interno dell’indefinito percorso evolutivo di questo medium. Questi ultimi però latitano e sono impantanati, vivono male la loro la genesi e trascorrono peggio la loro esistenza. Continuando a battere questa strada fatta di spettacolarità fine a se stessa, strabilianti (neanche troppo) dimostrazioni tecniche e infinite possibilità affiancate da un povertà di idee che ha dell’imbarazzante, si verrà a creare una spaccatura sempre più profonda tra il sottobosco indie e le superproduzioni milionarie. E per far fronte alle ingenti perdite di denaro si ricorrerà a dei nuovi modelli di business che andranno ad affiancare DLC, pass, microtransazioni e altri simpaticissimi metodi di recupero che mandano in bestia il consumatore.
Per venire fuori da una situazione dove molte delle ex superpotenze sono diventate medie realtà e dove le medie realtà si sono estinte per sempre, bisogna capire che il consumo di massa nel mondo dei videogiochi funziona grossomodo come il via vai delle mode passeggere. Se le aziende continuano a cadere vittima delle logiche da prêt-à-porter, sfornando solamente prodotti che dovrebbero essere per tutti ma che finiscono spesso per accontentare pochi, finiranno ben presto in condizioni disperate e senza via d’uscita. Il marchio che vende va rimpolpato con degli ottimi spunti che strizzano l’occhio all’innovazione e non dimenticano il passato, e anziché investire miliardi per gli ultimi ritrovati tecnologici, bisognerebbe fare una spesa più oculata e capace di esaltare i programmatori più validi, lasciando loro un certo margine di libertà anche in progetti che sono ormai ben avviati. Questa pessima piega da fabbrica bigia che ha preso un settore che dovrebbe favorire l’estro artistico e le illuminanti intuizioni, si sta rivoltando contro produttori e videogiocatori, e sta creando un appiattimento pericoloso dove proliferano reboot, riedizioni in alta definizione e rivisitazioni in chiave moderna di un passato stellare che è una spada di Damocle sulle teste di chi si trova a sentirsi eternamente paragonato. Potrei profeticamente affermare che molti altri cadranno, e che lo faranno in modo molto stupido e insensato, come se lo avessero scelto di loro spontanea volontà. Lemmings era un gran bel gioco, ma vedere gli stessi comportamenti da parte di chi dovrebbe essere coscienzioso e intelligente, è qualcosa a cui difficilmente ci si riuscirà ad abituare.
Le software house, già da qualche anno, si stanno ritrovando con l’acqua alla gola e stanno conoscendo l’onta del fallimento per via di progetti costosi e poco interessanti che si rivelano incapaci di generare profitti all’altezza delle aspettative. In questa moria generale fatta di azioni poco ragionate e decisioni chiaramente controverse, c’è un comune denominatore rappresentato dalla grave mancanza di idee e metodi in grado di invertire una rotta poco fortunata. Coi costi di produzione in aumento, la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente, condannando per sempre chi già fatica a rimanere in piedi e a far quadrare i bilanci; la soluzione, tuttavia, può arrivare ancora una volta dal basso. Auspicarsi un futuro in cui gli indie matureranno fino a diventare delle grandi garanzie, e dove chi sperpera denaro alla cieca possa rinsavire fino ad allinearsi con degli standard meno pretenziosi a livello economico e più ambiziosi in quanto a idee di fondo, è probabilmente il miglior pensiero con cui tutti dovrebbero prendere dimestichezza.