Warren Spector deve avere le idee molto confuse su cosa rende davvero il videogioco qualcosa di unico e inimitabile. Secondo il suo punto di vista, gli sviluppatori dovrebbero fare in modo che lo “storytelling collaborativo” sia maggiormente enfatizzato poiché è ciò che realmente serve per coinvolgere l’utente. E questo è vero. Poi però fa degli esempi fuorvianti e dichiara con forza che “Se tutto ciò che volete è mostrare quanto siete bravi, fuori dal mio medium! Andate a fare un film o cose del genere, perché non è questo ciò che dovreste fare”, difendendo infine quel senso di unicità che risiederebbe proprio nell’immersione partecipata da parte del giocatore. Eppure, in ciò che spiega poco dopo Spector, c’è qualcosa di profondamente sbagliato.
Bivi e scelte illusorie
Spector punta il dito contro la “mancata espressione del giocatore”, che a suo dire lo costringerebbe a seguire la storia senza poter realmente intervenire. Viene fatta una classificazione ben precisa prendendo in considerazione tre categorie di espressione da parte dell’utente: bassa, media e alta, e a queste vengono associate altrettante tipologie di gioco. Nella classificazione “bassa” rientrerebbero giochi come Uncharted che “limitano la tua possibilità di interagire con il mondo di gioco, in modo che la storia possa dipanarsi come deciso dal narratore. Hai un’abilita davvero limitata di esprimerti. Si tratta di come completi un sentiero pre-determinato per arrivare al prossimo punto della trama.” Nella classificazione “media” ci sono invece titoli come Heavy Rain, che sono da lui considerate delle “esperienze fantastiche. Sanno raccontare delle storie bellissime, migliori di quanto io non possa fare. Ma lo fanno perché nessun giocatore potrà mai fare qualcosa di sorprendente o imprevisto. È come se ci fossero cinque sceneggiature tutte assieme per un film, e tu stai solo scegliendo quale sceneggiatura raccontare in quel determinato momento.” Infine, Spector parla dell’eccellenza, delle opere in grado di sottolineare pienamente l’unicità del videogioco: oltre a mettere in mezzo il suo Deus-Ex, citare Fallout e Dishonored, ci accosta anche i picchiaduro e The Sims. Sì, avete capito bene.
A suo avviso, dunque, questa decantata unicità del medium risiederebbe proprio nella capacità degli sviluppatori di creare dei bivi, perché è di questo che in sostanza si tratta. Non si fa minimamente riferimento alla caratteristica su cui il videogioco deve puntare forte e non si prende in considerazione l’aspetto che separa questo medium da tutti gli altri; si rimane pertanto ancorati a una mentalità primitiva, a un periodo storico che osannava i libri-game. Libri-game, quelli che oggi si sono evoluti e hanno un aspetto grafico che ne giustifica in parte la presenza sul mercato. Ma attenzione: provocazioni a parte, questo articolo non è un’invettiva verso un determinato genere, né tantomeno l’imposizione di un pensiero dedicato all’evoluzione del videogioco. È piuttosto un bisogno viscerale di smentire delle inesattezze, che assumono dimensioni più ragguardevoli poiché pronunciate da colui che è stato un personaggio di spicco. Se davvero un titolo su binari, un’avventura grafica con qualche bivio o una storia sceneggiata con l’inserimento di alternative di poco conto, permettono all’utente di “esprimersi meglio” di un qualunque action sulla falsariga di Uncharted, allora l’industria ha compiuto un deciso passo indietro.
Le insidie dello storytelling
Diamo per scontato che la categoria più “alta” sia ben collocata. Diamo per scontato che un mondo di gioco più grande e più denso sia sinonimo di maggiore libertà di “interpretazione”. Diamo anche per scontato che i grandi giochi di ruolo occidentali rappresentino l’avanguardia del videogioco e la migliore forma di nobilitazione del medium. Di fronte a tutto ciò, si può davvero dichiarare che la libertà vada a braccetto con lo storytelling collaborativo? E ancora: siamo proprio sicuri che chi approccia il videogioco in maniera diversa, per esempio creando un perfetto equilibrio tra storia e gameplay, debba secondo il signor Spector “stare fuori dal suo medium”? Warren Spector ha detto delle mezze verità, elaborando la sua tesi con l’ausilio di strumenti grezzi, non tutti propriamente opportuni per entrare così tanto nello specifico. Ha quasi lasciato capire al pubblico che lo ascoltava quali sono i motivi per cui oggi è una star del passato che non è riuscita a stare al passo coi tempi.
Prendete Gone Home. No, lasciatelo perdere per un attimo e prendete Portal. Ecco, Portal è un puzzle-game, e di solito si tratta di un genere che non ha nessuna voce in capitolo, quasi come se fosse qualcosa che tutto sommato può restare ai margini senza che nessuno se ne accorga. Guardate cosa ha fatto Portal 2 con la narrazione ambientale e riflettete quanto tutto ciò sia prezioso per chi sviluppa e per chi si rende conto di quali sono le vere differenze tra questo e gli altri media. Ultimamente possiamo fare sempre più esempi di questo tipo, perché a differenza di quanto si pensi e al contrario di quanto si dica sulla staticità dell’industria, i passi in avanti ci sono stati e qualcosa si muove finalmente nella direzione giusta. Direzione che è ben diversa da quella indicata da Warren Spector.
L’unicità del videogioco non è lo storytelling collaborativo, perché di fatto non esiste. Il giocatore non collabora in alcun modo nel processo di creazione, ma sceglie sempre tra ciò che gli viene offerto; semmai, scopre gradualmente gli esiti di una narrativa ben ramificata, si muove sinuosamente tra gli strati sottili di trame sempre più complesse, ne vede le sfumature e interpreta finanche dei significati nascosti ai più. Gli esempi di Spector sono sbagliati e denotano una gran confusione, soprattutto perché certi titoli da lui indicati sono l’esempio più lampante di ibridazione tra diversi media. Se proprio si deve parlare di unicità, sarebbe più giusto elogiare la narrazione ambientale: quando viene sfruttata a dovere, raggiunge immediatamente il suo status di esclusività.