Cliff Bleszinski si è messo in proprio e ha aperto la propria azienda: si tratta di un piccolo studio indipendente che non dispone del budget che veniva concesso a titoli come Gears of War, pertanto l’autore, per far quadrare i bilanci e sperare di generare degli introiti, ha avuto bisogno di alcuni compromessi. Nel suo caso, il modo per abbattere il più possibile i costi di produzione è stato fare a meno della campagna in single player, dedicandosi dunque al solo sviluppo della componente online. Secondo lo sviluppatore, questa scelta drastica è qualcosa di strettamente necessario per risparmiare, e beninteso, dal suo punto di vista è pienamente comprensibile. Cliffy B ha dunque non poca ragione, ma cosa ne pensano i giocatori? E quali sono i risvolti di simili prese di posizione?
La metà di un intero
Secondo quanto dichiarato dall’autore, “Sviluppare la campagna di un moderno FPS richiede il 75% del budget”, e pare che questa venga “Abbandonata dalla gran parte degli utenti nel tempo di una settimana al massimo”, diventando di conseguenza qualcosa che, a differenza del multiplayer, “Costa troppo e rende troppo poco.”
Discorso impeccabile in un’ottica di bilanci aziendali, senza dubbio, eppure c’è stato del malcontento che nei casi più oltranzisti si è trasformato nel netto e preventivo rifiuto dell’acquisto di un gioco non ancora uscito. Una decisione aprioristica che denota un fondo di insoddisfazione verso i titoli sprovvisti di una delle due componenti considerate fondamentali per un videogame, le quali hanno il merito di dar loro pieno valore. È infatti opinione comune – probabilmente per via di tradizioni e abitudini difficili da far cambiare – che senza una campagna single player i giochi valgano sempre qualcosa in meno. Oltretutto, c’è da considerare un altro fattore: se il solo multiplayer dovesse esaurire la sua capacità di intrattenere nell’arco di una settimana, non sarebbe dunque alla stregua di un single player che “rende troppo poco?”
Che vi piaccia o no, il modo di videogiocare sta cambiando. Dapprima considerata una componente accessoria o addirittura un orpello, la componente multiplayer si è insinuata nel tessuto delle opere multimediali fino ad arrivare in certi casi a soppiantare tutto il resto, sfociando infine in un “genere” che a grandi linee potremmo tranquillamente chiamare multiplayer competitivo. Si tratta di titoli che nella maggior parte dei casi non hanno la minima necessità di raccontare una storia, poiché si fondano su una concezione completamente differente, che abiura gli elementi classici del videogioco. Il fatto che questa “deriva” abbia portato con sé la silenziosa accettazione dei DLC estirpati dal gioco completo e venduti a parte, delle microtransazioni e di tutto ciò che la community detesta ma continua a supportare, è un discorso diverso che ho già trattato in questa rubrica e che non mi interessa tirare nuovamente fuori. Piuttosto, sarebbe interessante riflettere sul ruolo della storia e sul valore di un’opera che offre solo l’amato/odiato multiplayer.
L’importanza della storia
Cliffy B. parla di FPS, sia chiaro, pertanto è da quello spunto specifico che è partita questa nuova puntata della rubrica. Estendendo però la questione a tutti i generi, qualora fossero privati del single player, cosa diventerebbero?
Abbiamo l’ardire di definire i videogiochi delle opere d’arte, ne siamo convinti e siamo tutto sommato d’accordo con questa definizione che ben si adatta a certi capolavori senza tempo che verranno ricordati a lungo. Queste opere, per essere archiviate e continuare ad esistere oltre il ciclo vitale di una console, devono avere delle caratteristiche ben precise. Un titolo esclusivamente multiplayer non le ha.
Chiusi i server, il gioco non esiste più: muore, cessa di esistere, diventa inutilizzabile. Ha adempiuto alla sua funzione di intrattenimento momentaneo, scegliendo di non essere un’opera nel senso più stretto del termine, ma qualcosa che si avvicina più a un prodotto da banco usa e getta. È merce deperibile con una scadenza non indicata sul fondo della sua custodia; è sollazzo provvisorio, un fuoco destinato ad estinguersi, un oggetto, un “servizio a pagamento” che non rimane nella memoria a lungo termine. Può anche essere molto bello se il caso lo vuole, per carità, ma rimane bloccato dalla sua stessa condizione di finitezza programmata.
Un gioco senza una storia, senza dei personaggi identificabili in un contesto, senza gli elementi fondamentali per portare avanti un racconto, non solo sfugge dai vincoli della tradizione, ma si rifugia in una dimensione tutta sua. In un certo senso si defila da quella visione romantica e artistica del videogioco e si va a incanalare in qualcos’altro che in molti faticano ad accettare. Tra questa moltitudine, c’è un gruppo ben nutrito di giocatori di vecchia data che vorrebbe condividere, magari col proprio figlio, proprio quel gioco che in adolescenza gli lasciato dentro un segno indelebile. Oppure vuole semplicemente rigiocarlo da capo perché lo desidera.
Costoro possono farlo: spolverano la console, la accendono e si perdono nella nostalgia mentre “tramandano” una loro esperienza a un’altra persona. In prospettiva, quanti di voi – oggi ragazzini e domani uomini – possono affermare di poter fare la stessa cosa con tutti i giochi che adesso stanno “consumando”?
Il videogioco sta mutando sensibilmente, talvolta presentandosi come un servizio o un prodotto che può fare a meno di una storia e di una campagna in single player.
Che cosa vogliamo veramente da un videogioco? Qual è il valore ultimo che gli diamo?