Death Stranding inizia a infastidirmi

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Visto il putiferio scatenato dall’ultimo appuntamento della rubrica, mi pare di aver capito che da queste parti bisogna tirare fuori tutto ciò che c’è nella mia Bustona delle Premesse® prima di iniziare. Perché stavolta parliamo di Death Stranding ed Hideo Kojima, e visto l’alone di sacralità (che tutto sommato capisco) intorno a queste due entità, succede sempre che ogni volta che si esprime un’opinione leggermente diversa dal solito partono le nuove crociate.Personalmente, non apprezzo Hideo Kojima. La persona, almeno, perché sull’artista c’è poco da dire o criticare. Kojima è tra i pochi esponenti del mondo videoludico in grado di esprimere ancora delle idee fresche, innovative e fuori dagli schermi. Ho giocato molte delle sue produzioni, Snake Eater è il mio Metal Gear Solid preferito, e tutto sommato non posso dire di non apprezzare la sua produzione. Non lo elevo a santità e non gli darei in pasto la mia unica figlia femmina in segno di riconoscenza, ma credo comunque che sia una personalità importante per questo settore, uno di quelli che quando deciderà di andare in pensione se ne sentirà la mancanza, al pari di un Miyamoto per intenderci.Non ho mai apprezzato, invece, il suo modo di porsi all’interno di questa industria. Le sue sparate nel corso degli anni, l’atteggiarsi a superstar, quell’aria di sacralità (appunto) più auto imposta che affibbiata da terzi. Dall’altre parte, trovo che ciò che gli sia successo in quel di Konami sia aberrante, perché neanche al peggiore dei propri collaboratori – e in questo caso parliamo di una persona in grado di creare una saga leggendaria, all’interno di un vivaio di un’azienda sempre più povera in termini di grandi produzioni – andrebbe riservato un trattamento del genere. Per questo, nonostante non mi farei offrire neanche un caffè da Hideo, ho trovato gratificante il suo ingresso all’E3 2016 (accompagnato dalla colonna sonora di Mad Max: Fury Road, pare voluta da lui stesso, perché una musichina di circostanza evidentemente era troppo poco epica), quando sorridente disse “i’m back” prima di presentare il suo Death Stranding. Dopotutto, anche se Death Stranding mi dà fastidio, non sono un mostro ed apprezzo che Kojima si sia ripreso lo spazio che merita. Arriviamo quindi al giorno d’oggi, quando il nuovo titolo di Kojima Productions, cercato e voluto da Andrew House di PlayStation, è arrivato a tre trailer, l’ultimo dei quali mostrato proprio ai Game Awards della lunghezza di ben otto minuti. Nel caso vi siate isolati dal mondo, per obbligo o necessità, negli ultimi giorni, lo trovate a questo indirizzo, insieme all’analisi dettagliata a cura del Polverino nazionale. Un trailer sicuramente denso di estetica, un aspetto sul quale, già dal primo trailer in realtà, non ci sono dubbi da sollevare. Death Stranding, a prescindere da quello che sarà il gioco quando e sé uscirà su questa generazione di console, è già un prodotto di culto. L’originalità, i dettagli, la lucidità nel mescolare tra loro tanti elementi surreali senza far sembrare tutto ridicolo, fa sì che Death Stranding sia già un prodotto da collezione in un certo senso, uno di quei videogiochi i cui screenshot rimangono impressi a fuoco nella mente, e da lì non se ne andranno. In un certo senso, con le dovute e doverose eccezioni, tutto ciò che sta succedendo intorno alla produzione mi ricorda un po’ ciò che dal 2008 i Marvel Studios stanno facendo con i loro cinecomic. Nel corso degli anni, è diventato legittimo e per niente strano attendere con ansia il nuovo trailer dell’Avengers di turno (230 milioni di visualizzazioni in 24 ore), e nessuno oggi si sognerebbe mai di apostrofare in modo negativo chiunque vada al cinema a vederli. Allo stesso modo criticare Death Stranding oggi, un gioco che contiene tra le altre cose uomini volanti, giganti invisibili, mostri tentacolari e situazioni tra il disturbante ed il criptico, è qualcosa per cui si può essere esposti al pubblico ludibrio con tanto di lancio delle feci.Ma non è per questo che Death Stranding mi dà fastidio. Dopo tre trailer, un paio d’anni abbondanti di cose dette e non dette, mi aspettavo un po’ di concretezza in questo terzo. Come detto ci sono tante “cose” nei trailer mostrati, ma non abbastanza. Forse è un problema mio che non sopporto più la “fuffa”, l’hype basato sulle intenzioni, il detto e il non detto, ma al suo terzo appuntamento Death Stranding doveva cominciare a tirare le fila almeno della narrazione, se non del gameplay.Il fatto è che tutto questo stile ha bisogno di essere incasellato in un pretesto narrativo efficace. Kojima ci ha abituato a trame decisamente sopra le righe, ma tutto sommato sempre accettabili. Qui abbiamo bambini dentro ai feti, che poi si nascondono dentro i corpi e fanno segni con il pollice, mostruosità invisibili, tecnologia aliena, e quasi sicuramente viaggi nel tempo e nello spazio. Insomma, credo sia il momento di capire almeno di cosa parla Death Stranding. L’ultimo trailer lascia ad intendere che l’umanità sia in un momento buio, con il riferimento al Big Bang, ma davvero, è ancora poco. Per non parlare del gameplay, perché per quanto Kojima sia forse il miglior “regista videoludico” di sempre, quello che sta creando è pur sempre un videogioco, e in qualche modo bisogna pur giocarlo. Perché “action open world”, come l’ha definito il designer nipponico, significa tutto e niente.

Avevo delle discrete aspettative per Death Stranding. Un Hideo Kojima con la totale carta bianca da parte di Sony è qualcosa di eccitante. Però, dopo questo ennesimo trailer pur curato, brillante nella messa in scena, ed ispiratissimo nell’estetica, mi aspettavo davvero di capire qualcosa di più sulla trama e sul gameplay del titolo. Non sappiamo ad esempio se i filmati sono delle cutscene poi presenti del gioco, o magari sono solo dei “cortometraggi” atti a dare solo l’idea del gioco. Incomincio ad essere sinceramente infastidito, e spero che nel prossimo appuntamento Kojima inizi a sbottonarsi un po’ di più.

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