Bentornati a
Cappuccino e Videogioco, la rubrica settimanale in cui scoprire (e riscoprire) i videogiochi con cui accompagnare queste giornate d’autunno. Finora ci siamo concentrati prevalentemente sull’esperienza casalinga: da
Demon’s Souls a
Rome: Total War, ricordandoci nel frattempo delle
avventure di Ezio Auditore e di
draghi col Sixaxis di PS3. Oggi andiamo di nuovo controcorrente: abbandoniamo per un momento le mura domestiche per ricordare la categoria dei videogiochi tascabili. E parlare della serie che, forse più di tutti, rappresenta l’essenza del gioco portatile: Pokémon, nello specifico
Pokémon Platino. Con
Pokémon Ultrasole e Ultraluna ormai pubblicati, proviamo a ricordare un po’ questa tappa del lungo percorso dei mostri tascabili.
Il “terzo” e la metafora
Pokémon Platino esce nel 2009, seguendo una tradizione ormai consolidata: quella del “terzo”. Fin dall’inizio, infatti, il successo ha portato il franchise a fare ogni volta almeno tre videogiochi per generazione. Due “principali”, direttamente compatibili tra di loro e anche con le generazioni immediatamente precedenti, e il terzo come una sorta di “remake estemporaneo”, a metà tra la l’espansione e al ponte concettuale con la generazione successiva. Tale era stato il destino di
Giallo,
Cristallo e
Smeraldo, e tale è quello di questo
Pokémon Platino. La regione è la stessa dei contemporanei
Diamante e Perla:
Sinnoh, ispirata nelle fattezze a Hokkaido.
I videogiochi della serie Pokémon vivono da sempre di un’audace operazione di meta-videoludica. I mostri tascabili del nostro allenatore protagonista altro non sono che metafora del nostro tenere, da bambini come da adolescenti, giovani e adulti, una piccola console portatile. Ogni volta che l’accendiamo ci coinvolge in un viaggio familiarmente estraneo. Perché Pokémon Platino non si muove da ciò che è stato in precedenza. L’allenatore protagonista ha il suo rivale, l’alleato di sesso opposto e deve scegliere il proprio starter. Ma già da queste basiche premesse il gioco lascia intuire qualcosa, un’impronta differente. Il rivale ha un carattere iperattivo, meno serioso e strafottente di molte generazioni passate. Il mondo è dominato da un’atmosfera più fredda, bianca e grigia. I legami tra allenatore e Pokémon, per quanto ancora insistenti sull’amicizia, si spingono verso qualcosa di più universale. Sinnoh qui è una regione invernale e soffusa, dove si ha la sensazione netta di stare alle radici del mondo. Che la ricerca di queste origini sia insita nel nostro stesso cammino di esseri umani, prima ancora che di allenatori.
In cima al freddo
Inutile tacerlo o rimarcarlo più di tanto: Pokémon Platino è un videogioco di qualità. Se l’ideale del catturare ogni esemplare, scambiarlo e lottare per un ideale sono sempre gli stessi, è un’altra la riflessione che vale la pena fare. I videogiochi Pokémon funzionano bene perché, prima di tutto, sono sinceri. Preso lo starter, ti accompagnano in maniera più o meno guidata nel loro mondo colorato, orgogliosamente Pokémon-centrico. Un modus operandi dove i cambiamenti hanno sempre fatto una certa fatica ad affermarsi, ma per la ragione più semplice di tutte: Pokémon fa lo stesso identico lavoro da più di vent’anni, e ormai è oggettivo che sia divenuto oltremodo efficiente nel suo modo di intrattenere. La sua prassi è ormai consolidata, talmente nota e conosciuta che non ha senso riportarla in questa sede. Il segno “differente” di Platino sta proprio nella sua ambientazione innevata. Le cui ripercussioni vanno oltre l’estetica.
I soliti Centri Pokémon, nuclei di cura istantanei dei mostriciattoli, sono delle oasi che in Pokémon Platino acquisiscono un significato differente. Sono nidi ancora più caldi, così come le palestre e le città. Tutte sembrano celebrare con forza la primavera e l’estate, stagioni di prosperità. Quasi a dimenticare il buio delle grotte e i monti inaccessibili. È questa la caratteristica che più questa versione Platino enfatizza di sé: tutta l’ambientazione “mielosa” della civiltà viene esagerata per far capire che chi si allena veramente non ha bisogno di confusione. Ha bisogno del buio e del silenzio, ma non per essere forte. Ne ha bisogno per capire se stesso e perché ha deciso di intraprendere il percorso di allenatore. Ai più nostalgici è venuto naturale ripensare al Monte Argento, durante la scalata al Monte Corona. Lì si stava tentando di arrivare a parlare con l’allenatore più forte del mondo, quel silenzioso Rosso e il suo Pikachu di livello ottanta. Qui invece stiamo andando verso un luogo considerato sacro, di fronte a Dialga e Palkia. Che altri non sono che la metafora di Izanagi e Izanami, le due divinità creatrici secondo la mitologia giapponese.
E poi, c’è infine la parte “in più”, che vuole quasi omaggiare il 3D. Capipalestra e Lega Pokémon della regione ovviamente non si toccano, ma la locazione inedita del Mondo Distorto, nei suoi contorti percorsi che omaggiano Escher, è una livello che solo i poligoni potevano costruire. Ed è in tale mondo che finalmente troviamo il leggendario che ci accoglie sullo schermo del titolo del gioco: Giratina, l’Antimateria. Il terribile essere contrario all’ordine della materia, e che in quanto tale fu esiliato dal sempiterno Arceus. Una storia così genuinamente mitologica come mai si era vista in questa serie.
I tre debutti
Ma è ora di smettere di rievocare, e tornare al 2017: dal DS e dalla sua generazione di mostri tascabili sono passati praticamente dieci anni. E forse solo ora comprendiamo appieno come il creare così tanti nuovi Pokémon con tema le “origini del cosmo” era l’intenzione simbolica di voler idealmente ripartire da zero. Passati infatti dal Game Boy (piattaforma da cui il brand ha fatto la sua fortuna) al Nintendo DS, i mostri e i loro autori si confrontano autenticamente con tre grosse novità: il doppio schermo, l’online e il 3D. Con il primo è solo una festa: ancora memori della “compressione” di un solo schermo, i programmatori finalmente hanno spazio per animazioni e per una resa opulenta, ariosa di ogni sezione. Lo stesso online permette loro di estendere la comunicazione oltre l’inossidabile (ma ormai vecchio) cavo Game Link, per quanto si trovino inevitabilmente a fare i conti con un mondo, quale è l’internet, che è sempre più grande di chiunque. La retrocompatibilità con gli ultimi usciti su Game Boy Advance è possibile grazie al DS stesso, che legge le vecchie cartucce con uno specifico slot. Tuttavia tali scambi appaiono abbastanza disincentivati, legati come sono a un numero limitato di Pokémon al giorno.
E forse perché ancora troppo timorosi per puntare al totale cel-shading, i ragazzi della Game Freak scelsero un ibrido in cui il 2D aveva ancora la posizione dominante. Le tre dimensioni venivano principalmente sfruttate per gli esterni, in modo che la visuale a volo d’uccello (sempre la stessa) evidenziasse la prospettiva di edifici, strutture e natura. Una dominanza che dall’altro lato non poteva che dimostrare nuovamente la grande sicurezza che gli autori hanno con la pixel-art: in Platino gli sprite dei Pokémon sono animati come ai tempi di Pokémon Cristallo, ed è sorprendente ancora oggi come anche così pochi fotogrammi diano sempre un po’ di personalità in più ai mostriciattoli. Ma ugualmente, ben pochi difetti sono stati limati. Il livello di difficoltà rimane basso, non sempre è chiaro quale percorso seguire (con la brutta sensazione di essere sempre un po’ “abbandonati a noi stessi”) e il ritmo generale è piuttosto altalenante, con lungaggini a cui non siamo più abituati (dover passare per tre schermate e un’animazione per usare un oggetto curativo). Permaneva poi la difficoltà nel catturare un almeno un esemplare di tutti i Pokémon: molti di essi erano paradossalmente difficili da ottenere, e fra questi c’erano proprio gli altri starter. Le funzioni online erano state pensate per limare almeno un po’ la cosa, ma il fatto che siano cessate nel 2014 non aiuta. Nei fatti questo obbliga oggi a organizzarsi “alla vecchia maniera”, ricercando più copie o andando a “dissanguare” le vecchie cassette del GBA.
L’ultimo gioco Pokémon con il nome di un metallo prezioso sta inevitabilmente bene con un cappuccino. Perché si basa su una struttura che fin dagli anni Novanta è uno dei pretesti videoludici portatili più adatti e coinvolgenti, e questo a prescindere dall’età. Perché se un bambino è basilarmente affascinato dai mostriciattoli, l’adulto si diverte a cercarne i riferimenti culturali, attratto dall’atmosfera garbata e sorridente. Inevitabilmente, anche qui interviene il gusto. Ogni generazione aveva la sua impronta dominante: Kanto aveva la scoperta, Johto la sincerità, Hoenn l’opulenza visiva. Platino prende il sorriso di Sinnoh e dei suoi predecessori e lo fa divenire gelido e nevoso, invitando alla ricerca di entità ancestrali e severe. A voi la scelta.