Sei anni dopo la morte violenta del marito, Amelia è ancora in lutto. Lotta per dare un’educazione al figlio ribelle di 6 anni, Samuel, un figlio che non riesce proprio ad amare. I sogni di Samuel sono tormentati da un mostro che crede sia venuto per ucciderli entrambi. Quando l’inquietante libro di fiabe Babadook arriva in casa, Samuel è convinto che il Babadook sia la creatura che ha sempre sognato.
In un’epoca in cui il cinema horror punta principalmente a scavare nella memoria di un passato glorioso, con remake più o meno riusciti, o che punta sulla paura “facile”, la regista australiana Jennifer Kent predilige una strada diversa. Una direzione in cui l’autrice prende volutamente le distanze dai canoni stabiliti di un genere oramai sull’orlo della saturazione in Occidente, preferendo piuttosto incamminarsi verso un cinema dell’orrore dal retrogusto più orientale. Meno spaventi a sorpresa e più tensione, quest’ultima costruita a poco a poco e in modo via via crescente, nel corso della narrazione: questa sembra essere la formula vincente che caratterizza Babadook. Eppure, per quanto a livello superficiale la pellicola abbia tutte le caratteristiche per essere annoverata in questo particolare genere, in realtà ciò a cui ci troviamo di fronte nell’opera della Kent è un lavoro molto più complesso.
Partendo da un espediente interessante come quello della fiaba nera – un carattere fondante di tanta letteratura popolare europea, che ha visto tra gli esponenti più illustri i fratelli Grimm – il film della regista australiana, in realtà, è volta ad analizzare la vera e sola paura che attanaglia la società contemporanea, il vero “male” costitutivo del Terzo Millennio: la depressione, quest’ultima derivante dall’essere soli. Ed è per questo che circoscrivere Babadook nell’ambito del cinema horror sarebbe limitante: attraverso il sapiente uso di una metafora come quella del “Babau”, la Kent affronta in realtà temi decisamente più profondi, a partire da un legame dolce-amaro madre-figlio, che ben tratteggia molte drammatiche situazioni mono-genitoriali contemporanee.
E’ in questo, infatti, che Babadook è più assimilabile ad un cinema del terrore di stampo orientale, a partire dai vari Ringu e Dark Water – entrambi diretti da Hideo Nakata – dove infatti la paura dell’abbandono e della solitudine, derivanti da una situazione di isolamento “obbligato” dalla stessa condizione di paria sociali in quanto famiglie mono-genitoriali, sono il grande motore narrativo che muovono le fila di tutto. La vera paura è il restare soli, essere messi al bando da un’ipocrita società contemporanea, che nel film è ben rappresentata dalla scuola che vuole sospendere il piccolo Sam per i suoi atteggiamenti indisciplinati e fuori dall’ordine, ma anche dalla stessa sorella di Amelia, una desperate housewife la cui unica preoccupazione quotidiana è “ciarlare” con le amiche e provare a dare una “raddrizzata” a quella sorella eccessivamente problematica e “interrotta”.
Ma accanto a queste riflessioni – che possono emergere alla luce di un’analisi a freddo della pellicola, successivamente alla sua visione in sala – (buona parte del)la forza di Babadook è sottesa sicuramente alla sua grande capacità di incutere timore attraverso un’ottima costruzione della tensione all’interno dello scorrere filmico. Ma non solo. Da un punto di vista registico, la Kent gioca con la macchina da presa, restituendoci un’esperienza fatta di ombre, colori saturi o tendenti al grigio, un espediente volto a ricalcare alcuni tratti fondanti del grande cinema espressionista dei primi vent’anni del Novecento. E per ribadire il concetto, la Kent popola il film di gustose citazioni, partendo dagli inquietanti film delle origini del cinema di Meliés passando per alcune pellicole classiche come Il fantasma del castello di Tod Browning e L’uomo che ride di Paul Leni, una scelta registica senza dubbio di grande appeal per gli appassionati del cinema “classico”.
Un altro aspetto che mira a suscitare grande inquietudine è sicuramente l’eccellente lavoro fatto in termini di sonoro: scricchiolii, porte che cigolano, passi, sono tutti elementi che contribuiscono ad arricchire la grande carica emotiva che si respira all’interno di Babadook, ma ancora una volta “piazzati” non a caso dalla Kent, con l’intento di amplificare ulteriormente il senso di solitudine in cui vivono costantemente i due personaggi. Così poco considerati dal mondo esterno che restano “vittime” della loro stessa casa, qui riletta come prigione e trappola di ricordi
Nel complesso, Babadook è una pellicola molto buona sotto tanti punti di vista. Da qualsiasi lato lo si guardi, è un film che riesce ad accontentare diversi palati, dagli amanti del cinema di genere (ma costruito in modo sapiente ed elegante) a coloro che vogliono provare a leggere in esso interpretazioni che vanno ben oltre il semplice “spavento”. Seppur “a caldo” – e lo ammetto senza vergogna – avessi risentito molto della lentezza nel suo ritmo, trovando in esso il suo principale difetto – riletto nell’ottica di cui sopra, Babadook è un film che mira a costruire un racconto attraverso tante sfaccettature, lasciando allo spettatore il piacere (e forse anche l’onere) di ricostruirne i pezzi. Ed è in questo, forse, che troviamo il suo pregio più grande.