Troppo facile sopravvivere a un’apocalisse zombie, a un’invasione aliena o all’apparizione di qualche specie mutante, oramai ci sono tonnellate e tonnellate di libri, videogiochi, film e fumetti che ci insegnano come avere la meglio su orde di famelici mangia cervelli, di gente con i canini appuntiti o di strani esseri dalla pelle verde. Ma in quanti sarebbero in grado di sopravvivere alla forza devastante di una natura matrigna? In questo senso, rimanendo solo in ambito videoludico,
The Long Dark cerca di risolvere il quesito, ma qui il vero interrogativo è in quanti saremo ancora vivi quando il titolo sviluppato da Hinterland Studio uscirà dall’Early Access. Una risposta molto più immediata arriva invece dai ragazzi di Mojo Bones, che con
Impact Winter si inseriscono sì in quel lungo filone di survivor game, ma lo fanno con un titolo che ben poco ha da spartire con i vari sandbox che compongono l’ormai infinita lista. Purtroppo, forse non all’estremo come in
questa nostra precedente prova, gli elementi della natura e una società oramai al collasso non sono gli unici nemici fronteggiati in
Impact Winter, un gioco in cui, a poche settimane dalla sua pubblicazione, la sopravvivenza viene messa a dura prova anche da una serie di fastidiose problematiche.
Come dei novelli dinosauri
L’incipit di Impact Winter non è certo una sorpresa, ma il solo fatto che si parli di un abbozzo narrativo differenzia il titolo di Mojo Bones dal restante 99% dei survivor game. La terra come la conosciamo noi non è che uno sbiadito ricordo ed è oramai ridotta ad una immensa landa desolata di ghiaccio e neve dopo che un meteorite largo 5 chilometri ne ha colpito la superficie. Gli effetti si sono subito fatti sentire, i raggi solari sono stati schermati da una spessa coltre di fumi e questo ha portato ad un abbassamento improvviso delle temperature, causando così la quasi immediata estinzione di piante e animali e una successiva strage anche tra gli esseri umani. In queste condizioni estreme è impossibile parlare di società o comunità, con i pochi sopravvissuti organizzati in piccoli gruppi che occupano ciò che rimane delle città sepolte dopo le tempeste del lungo inverno, come la chiesa dove troviamo il nostro protagonista. Jacob Solomon è un uomo qualunque, non ha superpoteri e non è un soldato geneticamente modificato, ma grazie alla sua leadership assume esattamente quello che è il ruolo dei vari Rick o Jack in The Walking Dead o Lost. Jacob diventa così la guida di uno sparuto gruppo di superstiti, le cui speranze di sopravvivenza sono tenute in vita da un misterioso messaggio recapitatogli da Ako-Light, un simpatico droide creato da Christophe, l’ingegnere nerd del gruppo. La registrazione, seppur distorta e mezza cancellata, appare chiara: tra trenta giorni arriveranno i soccorsi. Da questa flebile speranza prende a tutti gli effetti il via Impact Winter, un peculiare suvivor game dove il tempo assume un ruolo fondamentale, a differenza dei suoi simili dove l’agonia non ha un limite fissato, mancanza che priva l’esperienza di gioco di un vero obiettivo. Al contrario, Impact Winter gioca tutto sul fattore tempo, non solo per via dei trenta giorni di scadenza, ma anche perché molte delle azioni compiute da Jacob hanno il potere di accorciare questo lasso fatale e così costruire una trappola per conigli non ha solo il vantaggio di procurarsi con più facilità del cibo, ma anche di far scorrere le lancette dell’orologio più velocemente.
Dream team chi?
Dover sopravvivere per un mese, all’apparenza, non dovrebbe nemmeno essere troppo complicato, se mi trovassi in una situazione simile azzererei le mie funzioni vitali standomene tranquillo sul divano girandomi solo le mutande all’occorrenza per evitare inutili sprechi di energie ma, vuoi perché un simulatore di biancheria intima non avrebbe molta presa sul pubblico, vuoi per le temperature costantemente sotto zero e per i frequenti raid di scavenger – avete presente gli umani in The Walking Dead? Esattamente quelli – Impact Winter costringe il giocatore a una continua collaborazione con lo sparuto gruppetto di forzati fedeli della chiesa abbandonata. Le dinamiche di relazione, contrasti e compiti che si innestano fra i compagni di disavventura sono di certo una fra le più piacevoli varianti in tema di sopravvivenza introdotte da Mojo Bones, novità che però nascondono non poche insidie, volute e non volute: nulla vieta di ignorare il resto della squadra, il bello di Impact Winter è che l’unico vero obiettivo finale è tenere in vita il solo Jacob per tutti e trenta i giorni, ma far perire poco alla volta i rifugiati significa privarsi delle loro abilità e delle loro storie, riducendo così le probabilità di campare oltre l’ora X. Nella fase iniziale del tutorial vengono presentati il già citato Christophe, la cuoca Wendy, la meccanica Maggie e il reduce nonché esperto in tecniche di sopravvivenza Blane, ognuno dei quali con le proprie abilità particolari: ad esempio Wendy è in grado di preparare pietanze più sostanziose e nutrienti, Christophe è l’addetto agli upgrade del drone Ako-Light, mentre Maggie si occupa di tutte ciò che rende più sicuro ed ermetico il rifugio improvvisato. In tutto questo Jacob gioca il ruolo del direttore d’orchestra, ma di un’orchestra che non muoverebbe nemmeno un muscolo se non guidata passo dopo passo dal loro leader. Jacob deve decidere per loro la distribuzione delle razioni e cosa craftare, ma soprattutto è costretto a ravvivare ogni due per tre il fuoco al centro della chiesa, perché all’apparenza nessuno vuole sporcarsi le mani con la legna e col carbone, preferendo così morire di freddo. Almeno in questa versione di prova, l’intelligenza degli NPC non è parsa in grande spolvero: ogni personaggio ha vari parametri vitali, legati all’energia, alla fame, alla sete e alla felicità, ma ogni tanto questi valori scendevano pericolosamente vicini allo zero, semplicemente perché il Christophe di turno decideva di farsi una passeggiata in mezzo alle rovine della chiesa al posto che andare a dormire.
Lavoro di squadra
I compagni di viaggio non sono per fortuna solo delle palle al piede, ma interagendo con essi si viene a conoscenza del loro passato e del loro ruolo in questa labile società, dando così il via a delle vere e proprie storie, una serie di missioni capaci di dare maggior senso all’immancabile recupero delle risorse sparse nei vari ruderi, elemento imprescindibile di ogni survivor game che si rispetti. Mojo Bones ha saputo giocare abilmente con questi vari obiettivi, perché seguire e portare a termine tutto ciò che viene chiesto dal resto della squadra appare pressoché impossibile, e dunque sta al giocatore decidere se avere magari un rifugio più sicuro a discapito di trappole più efficaci per catturare la poca selvaggina rimasta in vita. I sopravvissuti nella chiesa non si limitano inoltre a dare compiti sempre nuovi a Jacob, ma sottopongono al loro leader varie questioni, come la scelta se aiutare o meno qualche sopravvissuto al di fuori della loro comunità, regalandogli ad esempio una razione di cibo. In base alle decisioni prese, ciascuno risponderà secondo il suo carattere, con ripercussioni sulla felicità e sulle relazioni di gruppo. Non è inoltre raro imbattersi in sparuti gruppetti di sopravvissuti che vagano per le distese innevate, gente menomata, un altro che è alla ricerca delle sue razioni o un disperato che vuole recuperare da un mercante un prezioso ricordo di un suo caro parente. Anche queste interazioni si traducono in un’altra serie di missioni utili per conquistare nuovi punti esperienza e per accorciare l’attesa per l’arrivo dei soccorsi. Al di là delle motivazioni che spingono Jacob a spingersi oltre le quattro mura sicure del suo rifugio, come in tutti i survivor game, l’esperienza di gioco ruota alla raccolta e al recupero delle risorse, sparse fra cassetti, armadi, macchine in panne, frigoriferi, specchi e chi più ne ha più ne metta. Dovendo utilizzare Jacob come una specie di corriere, è stato piuttosto fastidioso trovarsi davanti una gestione dello zaino del tutto simile a quanto presentato nei Resident Evil classici, una specie di tetris dove incastrare letteralmente ogni singola bottiglia, il pasto, quello che si stava recuperando e magari un fucile, che da solo porta via metà dello spazio. Avanzando nell’avventura gli slot saranno ampliati, ma questo sistema di gestione rende fin troppo macchinosa la ricerca dei materiali e delle risorse.
Sopravvivere a tutto
La pubblicazione di Impact Winter era inizialmente prevista per fine marzo, ma vista la mole di contenuti, il team di sviluppo ha preferito prendersi un ulteriore mese di lavoro per rifinire il tutto: a poche settimane dal lancio, il titolo è però parso ancora piuttosto acerbo. Nella mail di accompagnamento al codice venivano elencate una serie di problematiche note, come la mancanza di alcuni asset e un sistema di comandi non adatto al mouse e alla tastiera, ma i tempi stringono e questi non sono gli unici difetti riscontrati in questa versione di prova. Non sono stati pochi infatti i casi in cui l’unica soluzione è stata quella del riavvio del gioco, perché il povero Jacob Solomon si era incastrato in una parete invisibile o perché era finito letteralmente dentro un muro.
– Un survivor game non in Early Access è già un miracolo
– Il tempo ha un ruolo chiave
– Interessanti dinamiche relazionali con gli altri personaggi
– Setting ben costruito
L’idea alla base di Impact Winter è di certo interessante, con il loro primo lavoro di un certo spessore, i ragazzi di Mojo Bones cercano di ampliare quelli che sono gli orizzonti dei survivor game, introducendo da un lato l’elemento temporale e dall’altro tutte le meccaniche di relazione e interazione con gli altri NPC e compagni di squadra al fianco di Jacob. Con una tabella di marcia serrata in previsione della pubblicazione a fine mese, qualche perplessità però rimane, innanzitutto sul comportamento degli altri sopravvissuti, di certo non delle volpi e spesso incapaci di badare a sé stessi. Inoltre, Impact Winter attualmente appare lontano dal suo stato finale, con svariati problemi tecnici sui quali gli sviluppatori dovranno necessariamente intervenire per proporre un titolo stabile sotto ogni punto di vista.