Addio Stadia, non ce l'hai fatta (e non avresti mai potuto)

Google Stadia ha chiuso ufficialmente i battenti, ma non è un fallimento del gaming in cloud: è il risultato di un progetto contraddittorio che pensava che la tecnologia vincesse anche sulle idee. E che ha dimenticato di capire a chi voleva rivolgersi.

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a cura di Stefania Sperandio

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L'indifferenza è sorprendente. È come se Google Stadia fosse rotolata via nel dimenticatoio con un colpo di scopa, senza che a nessuno importasse granché. Eppure, nel 2019, il gigante di Mountain View era sicuro: non avremmo più avuto bisogno delle «scatole» (le console, ndr) per giocare ai videogiochi, avremmo giocato grandi first party made in Google, ci saremmo abituati a un modello che lascia indietro il supporto fisico.

Effettivamente, a quel modello ci siamo abituati – ma non con Stadia. Il servizio in cloud di Google ha chiuso oggi, definitivamente, dopo una inversione di marcia sul piano strategico e comunicativo che è passata dalla notte al giorno, dalla sfrontatezza alla laconicità, dal chiederci di radunarci negli eventi Stadia Connect a un tweet una volta ogni tanto.

Ha chiuso in mezzo all'indifferenza e non ce l'ha fatta. E, guardandosi indietro, è lapalissiano che non avrebbe mai potuto farcela.

Concorrere nei videogiochi, mettendosi su un altro piano

I videogiochi hanno da sempre evidenziato che è fondamentale avere un solido know-how di come funzioni l'industry, per riuscire a farsi strada nel settore.

Quando i giganti come Google tentano di muoversi in un mercato come questo, perché fa registrare numeri da capogiro ed è vicino al mondo tecnologico di cui si occupano, si trovano davanti ad aziende spesso più piccole ma che masticano videogiochi da tanto tanto tempo.

Perfino il titano Microsoft, che con i videogiochi ci ha a che fare da un bel po', ha comunque dovuto trovare con pazienza e dedizione la sua quadra per il mondo Xbox. Una quadra che, curiosamente, passa anche per il cloud.

L'idea di Stadia era quella di mettersi su un piano diverso: non sto andando a sviluppare la mia console, non farò un faccia a faccia con Nintendo o con PlayStation. Voglio provare a proporre un modo diverso di giocare, in cui "la mia console" è rappresentata dalla prestanza dei server che posso offrire al gioco in cloud.

Se, da un lato, l'idea era avveniristica – anche troppo, per il 2019 – dall'altro le trovate ingegnose si fermavano però qui.

E sbaglia chi pensa che il fallimento di Google Stadia sia il fallimento del gaming in cloud: non è la tecnologia che non ha funzionato, ma il modello con cui è stata proposta.

È il fatto che Google abbia provato a pensare "fuori dalla scatola" (passatemi la battuta, ndr) solo fino a «giocherete senza console». Quando si è trattato di capire come monetizzare Stadia, invece, Google ha guardato al passato ed è anche in questo che si è arenata.

L'ariete nel gaming: tecnologia vs inventiva

Google ha fatto leva su un ariete palese, nel mettere in piedi Stadia: la sua forza di investimento. A questo si affiancano, di concerto, le sue tecnologie. Ha pensato, a suo modo, che avere tecnologie all'ultimo grido sia sufficiente per avere un'attrattiva sui videogiocatori e in questo si riassumeva la sua visione a lungo termine.

Pensiamo a Nintendo Switch: non ha certamente la scheda tecnica più impressionante sul mercato e, sebbene sei anni dopo alcuni giochi mostrino fatica sul fronte tecnico, continua a vendere come il pane – perché molte delle esperienze ludiche che si trovano sulla console, spesso realizzate da Nintendo stessa, valgono da sole il prezzo del biglietto, con buona pace delle avanguardie tecnologiche.

L'inventiva è molto più forte della tecnologia. Entrare nella stanza sbattendo la porta per dire che i concorrenti sono solo un obsoleto retaggio di un modello precedente, pensando che avere la forza dei server in cloud e i soldi di Google avrebbe fatto tutto da sé, è stata una enorme ingenuità.

Lo dimostra come siano andate le cose per gli studi first-party: quando Google ha annunciato Stadia, aveva assicurato ai suoi abbonati che avrebbero avuto anche delle produzioni esclusive su cui mettere le mani, con il team Games & Entertainment capitanato da Jade Raymond.

Tutto bello, se nel primo trimestre del 2021 – ossia, meno di due anni dopo – il gigante di Mountain View, capitanato da Phil Harrison nel progetto Stadia, non avesse cambiato idea, invertendo la marcia, defenestrando Games & Entertainment e concentrando la sua piattaforma sull'ospitare i giochi delle terze parti, non più sul realizzare i propri in esclusiva.

Un cambio di direzione che conferma quanto detto poco sopra: il bisogno del know-how. Se chi ha messo i soldi nello sviluppo dei videogiochi esclusivi si aspettava davvero di avere in mano qualcosa nel giro di un anno e mezzo, forse è perché non ha idea di come si realizzi un videogioco della portata di un AAA.

Ecco, allora, che anche la favola dei soldi infiniti da spendere per raggiungere il proprio obiettivo ha più di uno spigolo, se quei soldi non sai bene come spenderli. Se, soprattutto, ti manca una visione che sia ancorata alla realtà e i tuoi stessi dipendenti scoprono che la software house sta dicendo addio a tutti i progetti dopo che gli era stato assicurato il contrario. Che poi, se ci pensiamo, è esattamente lo stesso che è accaduto agli abbonati – rassicurati ad agosto, abbandonati a settembre.

Non basta schioccare le dita per creare grandi videogiochi (e nemmeno piccoli, a dire il vero) e non basta proporre un modello di business che si rifà al passato se quello che adduci di voler vendere è il futuro del gaming.

Una via di mezzo che non sapeva a chi si rivolgeva

Per usare Stadia al massimo delle sue possibilità, gli utenti dovevano pagare una sottoscrizione. Questa avrebbe permesso loro di sfruttare i server cloud per avviare i loro videogiochi. L'abbonamento a Stadia Pro, però, includeva solo una minuscola selezione di titoli mensili, mentre tutti gli altri andavano comprati a prezzo di listino.

Facendo leva su un mercato sempre più digitale, insomma, Google aveva pensato di proporre una console eterea che per non avere limitazioni richiedeva di pagare sia l'abbonamento che l'intero prezzo del biglietto del singolo gioco. Un modello che non è riuscito a imporsi davvero nemmeno con l'assist a porta vuota fornito da Cyberpunk 2077: tolti i PC da gaming, nel 2020 l'unica piattaforma su cui il titolo di CD Projekt girava davvero bene, era Stadia.

E una Google che era stata sfrontata nel 2019, al punto da alludere a una sostituzione delle tradizionali console, solo l'anno dopo fu quasi timida nel cavalcare questa occasione. Avrebbe potuto farsi sentire di più, a quel punto – e invece anche quella nave si allontanò dal porto prima ancora che il gigante di Mountain View riuscisse ad approfittarne.

L'errore fu quello di pensare che il cloud potesse funzionare con un modello di acquisto ibrido. Ora come ora, i videogiocatori comprano sempre più titoli digitali ma sono molto attaccati all'avere le loro piattaforme da gioco specifiche. Proporgli di comprare un bene a prezzo pieno, per cui magari poi serve anche un abbonamento, che può essere usato solo su quella piattaforma immateriale non ha funzionato.

Il cloud, come modello in abbonamento, funziona di più quando è di affiancamento, sul pubblico odierno: gli utenti di Game Pass si abbonano soprattutto per i giochi inclusi al day-one e magari passano al livello Ultimate (che include anche il cloud, lo trovate su Instant Gaming) come gradito plus, considerando che non devono comprare i singoli giochi da far girare sulla nuvola. Gli utenti di servizi come GeForce Now riproducono in cloud giochi che hanno già comprato altrove – come su Steam – e non specificamente per quella piattaforma.

Non era la tecnologia a essere sbagliata, era il modo in cui era stata impacchettata. C'è e ci sarà sempre più spazio per il gioco in cloud, quello capillare e onnipresente su qualsiasi device possa connettersi a internet. Solo, non per quello che vuole continuare a vedersi e vendersi come se fosse solo una console immateriale.

Chi era disposto a spendere 60 euro o giù di lì per l'acquisto di un singolo gioco, all'avvento di Stadia una piattaforma dove giocare sicuramente ce l'aveva già e non ha trovato motivi validi per abbandonarla e passare a un altro modello che gli chiedeva, in aggiunta, di versare anche un abbonamento se voleva andare oltre i 1080p.

Senza nemmeno scomodare il fatto che le connessioni che possono streammare in 4K (come era previsto da Stadia Pro) sono molto meno capillari di quanto Google calcolasse – il che ha reso ulteriormente poco appetibile la sua proposta principe: non pago un abbonamento nemmeno volendolo, se la mia connessione internet non mi consentirebbe comunque di giocare ai 4K che pago.

Insomma, la soluzione adottata da Stadia, alla fine della fiera, non sapeva a chi voleva rivolgersi e questo è stato uno dei suoi più grandi problemi – perché ha messo in evidenza che Google stessa, come troppo spesso succede, non sapesse che direzione prendere. Il giocatore hardcore non abbandonerà le sue piattaforme per buttarsi solo sul cloud. Il giocatore alle prime armi non comprerà giochi a botte di prezzo pieno per il singolo titolo, pagando magari anche Stadia Pro.

La strategia è sempre stata da alto mare e le cose non potevano andare diversamente rispetto a quello che è successo oggi. La tecnologia e la visione non erano sbagliate – il cloud è qui per restare, con i suoi ritmi e a piccoli passi.

Era il modello con cui veniva proposto quello di Stadia, a essere fuori dal mondo. E, infatti, oggi è proprio fuori dal mondo che è andato a finire.

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