Update: diversamente dal codice review, dove per sbloccare la missione 45 avevamo dovuto completare circa 4 missioni con modificatore, pare che il codice retail permetta di arrivare al finale segreto senza doverle necessariamente finire. Di conseguenza ho modificato l’articolo. Considerando che le debolezze narrative, strutturali e dell’IA rimangono, comunque la valutazione finale non cambia.
La recensione di oggi non è normale.
No, non c’entra il titolo coinvolto, appartenente a una serie che rappresenta per molti uno dei cardini del videogiocare, poco conta il fatto che io la stia scrivendo in prima persona, e scarso rilievo ha anche il mio stato d’animo, a dir poco alterato dopo aver letto certi commenti preventivi a pezzo ancora in piena stesura. Non sono qui per raccontarvi a che velocità i miei testicoli stanno roteando in questo momento (spoiler: il muro del suono è in frantumi da un po’), né per darvi una pacca sulla spalla e rassicurare gli animi specificando che l’opera del buon Kojima si è chiusa in modo perfetto e inarrivabile. Oggi sono semplicemente qui per raccontarvi una storia, che inizia con me che provo un gioco potenzialmente splendido, e finisce con Hideo che sodomizza tutti i miei neuroni. Uno, per, uno. Credo di doverlo a chi ci legge (non a chi fa finta), poiché quando un gioco scalda gli animi fino a questo punto è il caso di essere completamente cristallini. Se la storiella non vi interessa passate oltre, guardate lo sfavillante 9 che torreggia in cima alla pagina, e andate belli spediti a ordinare la vostra copia. Se invece vi va di sapere perché The Phantom Pain è uno dei giochi più stravaganti, audaci, e al contempo imperfetti che Kojima e il suo team abbiano mai congegnato continuate pure. I paragrafi da sfogliare non mancano.
Silenzio e veleno
Mentirei se negassi di aver approcciato il gioco con neutralità assoluta. La serie l’ho giocata tutta e amata alla follia, e ancora ricordo il sordo tonfo della mia mascella sul pavimento quando, giovanissimo e imberbe, scoprii grazie ad alcuni amici come sconfiggere Psycho Mantis, o ancora lo shock nel rendermi conto che la frequenza radio di Meryl era bellamente scritta sulla custodia del gioco dopo dozzine di tentativi a casaccio per beccarla. I capitoli successivi al primo Metal Gear Solid su Playstation non sono certo da meno quanto a momenti indimenticabili e aneddoti degni di esser ricordati, ma non è la nostalgia a spingermi a certe reminiscenze, il motivo è preciso e ve lo svelerò in seguito. Per ora è il caso di tornare al mio impatto iniziale col videogame in questione, e che impatto… per “sole” 15 ore ho provato il titolo durante un evento preview in Francia, e quando sono tornato la certezza quasi assoluta di avere a che fare con qualcosa di memorabile permeava ogni mio muscolo facciale. Tutto merito di un prologo stratosferico e di un gameplay di una solidità eccezionale, due elementi che da soli basterebbero a convincere quasi ogni redattore. Quando tuttavia ho continuato la mia avventura durante il review event, ho commesso l’errore di scordare il nome di colui che il progetto lo ha creato e non c’è voluto molto perché le mie certezze venissero disintegrate per lasciar posto a dubbi e confusione.
Del succitato prologo non posso dirvi molto, in verità. Gran parte di voi l’avranno già visto, altri si saranno risparmiati qualunque spoiler. Fatto sta che Konami mi ha categoricamente proibito di descriverlo nel dettaglio, e non è difficile capire il perché se si è tra coloro che il gioco lo hanno spolpato fino al midollo.
Poco importa, comunque. L’unica cosa che dovete sapere è che la prima ora ha l’intensità di un rave sotto casa, ed è un insieme di tocchi di classe registici, momenti inaspettati e follie che mette subito in chiaro il motivo per cui il caro Hideo al giorno d’oggi è ancora una sorta di rockstar dei videogiochi. Passato quel momento, però, tutto cambia. Il gioco decide di mettere da parte la formula tanto amata dai fan della serie per concentrarsi principalmente sulla sua nuova natura: quella di un free roaming con meccaniche complesse e innumerevoli possibilità.
Lo ho già detto prima, il gameplay conquista e lo fa entro pochissime missioni. Scordatevi le limitazioni dei predecessori, The Phantom Pain è qualcosa di completamente diverso, una sorta di mescolanza riuscitissima tra uno stealth game e un sandbox. Il titolo Konami non è un sandbox puro, va precisato: il prode Big Boss, qui chiamato Venom Snake, deve affrontare missioni ben precise, divise tra operazioni principali e secondarie, e gli obiettivi sono indicati sempre più o meno con chiarezza sulla mappa. Sta ad ogni modo solo a voi decidere come raggiungere questi obiettivi, e gli stili di gioco offerti sono da acquolina in bocca. Se ricordate Ground Zeroes il sistema vi sarà familiare, poiché Snake ha la possibilità di marchiare i nemici dalla distanza con il binocolo per valutarne con facilità gli spostamenti, e la sua visibilità viene rivelata da un indicatore direzionale mostrato a malapena, la cui comparsa di norma offre ancora qualche istante per nascondersi prima che la guardia coinvolta si accorga della minaccia. Una volta scoperti il tempo viene rallentato con una sorta di Bullet Time, disattivabile a piacere dalle opzioni se non si desiderano facilitazioni eccessive, e come sempre sono disponibili sia armi letali silenziate che pistole e fucili caricati a tranquillanti, per superare le missioni senza far vittime. Su questa base il ventaglio si apre totalmente, e sventola sotto agli occhi del giocatore una serie di meccaniche ben più affinate di quelle della breve premessa uscita qualche tempo fa, con un’interattività nettamente maggiore nelle mappe, rade zone di scalata delle pareti, una mobilità migliorata, bombardamenti ed elicotteri di supporto, più opzioni quando si decide di interrogare un nemico preso di sorpresa, svariati veicoli controllabili, e una pletora di oggetti sfiziosissimi. Vi pare poco? Allora ci aggiungiamo le condizioni atmosferiche, che variano sensibilmente l’approccio alle missioni nascondendo il suono dei passi o riducendo la visibilità, e una brillante gestione del livello di difficoltà, non settabile a piacere ma con la capacità di mutare in base alle vostre prestazioni. In pratica, le armate presenti nel gioco imparano dalle vostre tattiche e si trasformano di conseguenza, iniziando a vestire giubbotti antiproiettile se completate i compiti in modo aggressivo, o portando sempre un elmetto nel caso il giocatore sia un grosso amante degli headshot tranquillanti. La trovata è geniale, e anche se nelle fasi avanzate può risultare frustrante avere a che fare con gruppetti di soldati in corazza eliminabili quasi solo grazie alle mosse corpo a corpo (sì, il CQC è tornato), è impossibile non lodare la spinta a variare costantemente l’approccio alle missioni derivante dall’idea. L’unico reale passepartout offerto dal gioco è il Chicken Hat, un copricapo ridicolo che può venir attivato dopo svariate morti e impedisce al nemico di rivelarvi, ma nessuno dotato di dignità oserà utilizzarlo.
Ulteriore fiore all’occhiello del sistema sono gli aiutanti, compagni incredibilmente validi selezionabili in una comoda schermata dell’equipaggiamento prima di partire in missione. Già il cavallo a disposizione di Snake è tra i migliori quadrupedi nitrenti mai visti in un videogioco, se non altro per la sua funzione di copertura in movimento e i controlli precisi che lo rendono preferibile a quasi ogni mezzo a motore negli spostamenti, ma è quando si ottengono Quiet, D-Dog e un simpatico Mech personalizzabile che le cose decollano sul serio. La svestitissima cecchina ormai resa famosa da polemiche e action figure è una compagna letale, che può venir mandata in avanscoperta, addormentare i nemici o fare una strage, a seconda di come la si equipaggia. DD non è da meno, e per quanto mi riguarda sarà a lungo seduto sul trono dell’olimpo dei cani virtuali, con il suo fiuto che marchia nemici e prigionieri nelle vicinanze, e le distrazioni che offre. A questo punto il mech potrebbe sembrare il membro più sfortunato del gruppetto, perché non ha un indicatore di affinità che sblocca abilità extra ed è difficile affezionarglisi, tuttavia anche il Walker è un sostegno incredibile in missione, e può fare disastri se modificato a dovere. I partner di Venom Snake in The Phantom Pain in parole povere sono da applausi, al punto da rappresentare la ciliegina sulla torta di un gameplay che riesce già da solo a rendere ogni missione diversa dalla precedente.
E poi c’è il Fulton Recovery System.
Be the boss
Se vi siete persi ogni singolo trailer, spiego subito di cosa sto parlando: si tratta di un palloncino aerostatico auto-gonfiabile basato su un reale sistema di recupero militare, che scaglia nell’aere a gran velocità qualunque cosa o persona Snake voglia rispedire al suo campo base. Potenziatelo a dovere e potrete far vostri corazzati e container ricchi di materiali con la stessa facilità con cui si ottengono soldati extra per il proprio esercito, senza contare le armi e la chance di addormentare e mettere al sicuro praticamente ogni animale presente nelle zone di guerra esplorate. L’importanza del Fulton è notevole, perché garantisce di liberarsi di soldati storditi temporaneamente senza troppe difficoltà, di salvare prigionieri non feriti aumentando il proprio eroismo, di appropriarsi di mezzi poi schierabili in battaglia, e poiché attorno a lui ruota buona parte dell’aspetto gestionale di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.
Questo gioco è direttamente collegato a Peace Walker per personaggi, vicende e posizione nella complicata cronologia dei Metal Gear. Dal titolo per la portatile Sony prende in particolare la possibilità di gestire una propria Mother Base, con tanto di suddetto esercito in crescita continua e reparti dai compiti specifici. Ogni soldato recuperato tramite Fulton vanta statistiche che lo rendono più o meno adatto a un determinato compito, e la sua aggiunta a una squadra può aumentare il livello della stessa. Migliorare, ad esempio, le capacità della squadra di intel vi offrirà informazioni extra durante la missione, chiaramente indicate sulla mappa dell’iDroid portatile di Big Boss.
La scoperta di armi e oggetti, in particolare, dipende dal livello dei team di ricerca e di supporto, che se potenziati a dovere permettono di ottenere bocche da fuoco poderose a gioco inoltrato, e strumenti avanzatissimi che assicurano di superare certe missioni come se nulla fosse. Attenzione, la difficoltà e la progressione delle ricerche sono ben gestite al di fuori di qualche strano picco, ma l’elemento sandbox permette di completare alcuni compiti in gran fretta se si sa dove andare e come muoversi, a dimostrazione che la libertà lasciata al giocatore durante l’azione è totale.
La gestione della Mother Base insomma è utile e soddisfacente, e non dubito che per alcuni si trasformerà in una sorta di malattia, con sintomi da ossessivo-compulsivo che obbligano a scagliare nei cieli tutto ciò che si muove nelle zone disponibili per accarezzarlo amorevolmente una volta tornati alla base. Non è perfetta, poiché si gestisce tramite menù spesso poco intuitivi e per essere capita a dovere obbliga a un lungo scorrere dei consigli durante i caricamenti o nel menù dedicato, altrimenti non coglierete come mai ogni tanto scoppino risse nei vari team capaci di mettere fuori uso i vostri agenti per un po’, eppure in generale abbiamo apprezzato parecchio la “caccia al soldato d’élite” che si scatena quando le statistiche dei nemici iniziano ad apparire chiare grazie al binocolo. I soldati peraltro si uniranno a voi di loro spontanea volontà dopo la maggior parte dei compiti, impressionati dalle gesta di Big Boss o spinti dalla statistica Eroismo, che sale comportandosi in modo impeccabile o salvando dei poveracci catturati e cala quando si compiono errori o si viene scoperti.
Questa crescita delle truppe si ripercuote in parte sulla cattura delle piattaforme online, un’interessante extra che si sblocca dopo un bel po’, e vedrà le vostre truppe o quelle di un altro giocatore difendere zone della Mother Base appositamente acquistate in acque territoriali speciali da un nemico infiltrato. È purtroppo l’unica modalità che non ho avuto modo di testare a fondo, ma sulla carta è curiosa e potrebbe occupare per molto tempo certi giocatori, specie considerando la varietà di difese acquistabili per rendere più difficile la vita agli infiltrati, e la possibilità di intervenire direttamente a salvaguardia della propria base. La personalizzazione della Mother Base a livello di logo e colori dipende probabilmente proprio dalla volontà degli sviluppatori di dare un tocco unico a ogni base, per donare maggior personalità a tali scontri.
Non che la Mother Base sia solo rose e lamiere comunque: al di là dei difetti d’interfaccia, anche la sua gestione fisica poteva essere migliore. Le grosse piattaforme acquistabili e ampliabili posson venire esplorate liberamente da Venom Snake dopo ogni missione, e sono spesso il luogo ove la storia si sviluppa maggiormente tramite cutscenes. I soldati arruolati poi gironzolano per la base e incontrarli aumenta il morale delle truppe, fatto sta che la distanza tra le varie piattaforme è fin troppa ed esplorarla ha un’utilità relativa, correlata solo alla fase finale o alla volontà di avvicinare certi personaggi per vedere cosa combinano. Avremmo indubbiamente preferito la presenza del Fast Travel agli spostamenti tramite elicottero o Jeep, e pure l’obbligo a tornare ogni volta a bordo dell’elicottero per cominciare una nuova missione risulta leggermente fastidioso alla lunga.
Proprio dalle mancanze della Mother Base, per quanto marginali, è il caso di passare alla descrizione dei difetti del gioco, dopo averne elogiato in larga parte gameplay e altri elementi. Il paradosso è che tali mancanze non sono neanche poche.
Demoni
Meglio indicare subito l’elefante nella stanza, visto che il problema primario di The Phantom Pain risiede proprio nella sua struttura atipica rispetto agli altri Metal Gear. La presenza di due larghe macrozone completamente esplorabili al di fuori delle missioni e circoscritte solo quando si ha un preciso obiettivo è fantastica, ma chiaramente va a diluire la narrativa, che si sviluppa solo dopo alcune spedizioni precise, normalmente indicate da una comoda spunta color oro. Il difetto non esisterebbe neanche se il titolo continuasse da inizio a fine con la stessa struttura, anche perché era ovvio da subito che il team si sarebbe concentrato maggiormente sul giocato questa volta. Eppure a metà gioco la magia si spezza, introducendo un capitolo 2 dove le missioni non progrediscono più allo stesso modo. Mi spiego meglio, o al meglio delle mie possibilità, perché non posso citare le singole missioni causa NDA e possibili spoiler. La campagna del gioco è divisa praticamente in due parti: nella prima i compiti offerti sono estremamente vari e, anche se le estrazioni di prigionieri o le eliminazioni all’apparenza simili non mancano, la diversificazione di mappe e nemici e il numero di approcci mantengono senza pause alto l’interesse. Si giunge dunque alla seconda fase galvanizzati e con una fame eccezionale per tutto ciò che verrà dopo, ma si viene in parte ingannati. Qui infatti compaiono sì nuove missioni, ma sono accompagnate da contratti ripetuti, trasformati da modificatori che ne aumentano enormemente la difficoltà.
Tali modificatori sono piuttosto ovvi, però vi assicuriamo che rendono certe fasi un inferno se non si approccia il gioco con massima concentrazione e capacità di reinventare le proprie strategie. Subsistence vi costringe a ottenere tutto l’equipaggiamento da zero, Total Stealth porta al fallimento non appena scoperti dal nemico, ed Extreme aumenta enormemente il danno inflitto dagli avversari e la loro resistenza, oltre a rendere inutilizzabile Reflex Mode e Chicken Hat.
Figata, direte voi. Ed è così in effetti. D’altronde la presenza di missioni hardcore durissime capaci di mettere alla prova un giocatore è motivo di vanto per un videogame nel 99% dei casi. Qui però il caro Kojima ha fatto una scelta strana, inserendo queste missioni nel bel mezzo della seconda parte della storia, quasi a voler allungare il brodo invece di inventarsi compiti del tutto inediti. Il fatto che tali missioni contengano persino le stesse cutscene è insensato a livello narrativo, e non rappresenta certo un valore aggiunto per la campagna. Valutando poi l’importanza della ricerca per facilitarsi le battaglie, si viene inoltre costretti a concentrarsi sullo sviluppo della base, che la cosa piaccia o meno. Una scelta di game design che un po’ cozza con l’idea di libertà assoluta che ci avevano dato le prime 30 ore di giocato.
Leggermente da rivedere è anche l’intelligenza artificiale, che è migliorata e potenziata a dovere dal sistema di difficoltà descritto prima, ma è ancora facilmente exploitabile e reagisce un po’ troppo lentamente agli stimoli, dando spesso tutto il tempo di controbattere. La situazione nelle missioni Extreme è ben diversa, pur incrinandosi per il fatto che il trenino degli addormentati (o dei cadaveri) è ancora una triste realtà quando si usa un po’ di astuzia.
Addirittura le boss fight hanno sofferto per la necessità di adeguarsi al nuovo gameplay: cucite attorno alle mappe del gioco e non gestite come sequenze a parte, sono più sporadiche e meno originali degli eccezionali scontri dei predecessori, nonostante gli sviluppatori siano riusciti a renderle comunque esaltanti usando qualche artificio e memorabili quanto basta da spezzare il ritmo in modo positivo. Bello come siano comunque completabili con tattiche molto diverse tra loro, che alle volte le semplificano di brutto.
La ferita più profonda, inaspettatamente, deriva da quel fattore che nei Metal Gear è sempre stato un punto di forza inattaccabile, forse escludendo solo il secondo capitolo prima che il cerchio si chiudesse e tutto acquistasse un senso. Questo taglio sanguinante è la narrativa, che dopo una partenza esplosiva e l’introduzione di tematiche di una profondità rara, scade nella pseudo fantascienza becera. Non è insalvabile, grazie anche ad alcuni momenti di assoluta potenza e crudezza, e rimane sempre radicata in minima parte alla realtà scientifica, perché Kojima non manca mai di fare i compiti a casa su certi argomenti, eppur non è minimamente all’altezza di quanto visto in Snake Eater, ancora forse il capitolo con i personaggi più memorabili in assoluto, o anche solo della coerenza di Metal Gear 4, capace di correlare l’impossibile con le sue lunghissime cutscene. The Phantom Pain è un capitolo ponte, e come tale appare alle volte un po’ debilitato, incapace di raggiungere le vette delle trame passate.
A strange mind
L’assurdità sta nel fatto che, sul finale, queste debolezze nella storia vanno rapidamente a farsi fottere. E scusate davvero il francesismo, ma stiamo comunque parlando di un gioco PEGI 18. Questo perché giocando normalmente, con il completamento delle missioni base, voi la conclusione non la vedrete. Sono serio. Kojima nel 2015, dopo aver sviluppato capitoli piuttosto chiari a livello narrativo, ha deciso di fare l’impensabile e di regalare una conclusione soddisfacente solo ai più tenaci. Non è la prima volta che Hideo va contro a tutto ciò che è la logica comune e abbraccia il pensiero laterale, perché credete che io abbia citato la boss fight con Psycho Mantis a inizio recensione? Avrei potuto anche semplicemente dire che in tal modo The Phantom Pain non fa altro che ribadire la sua vicinanza a Peace Walker, dotato di espedienti simili, ma non avrebbe avuto lo stesso impatto. Quello che voglio precisare è che una chiusura potente come una fucilata in faccia nel gioco c’è, ma non posso descrivervela, né dirvi come raggiungerla. Posso solo darvi i seguenti consigli: esplorate a dovere alcune parti della Mother Base, fate le secondarie più significative anche se non sono indicate in giallo, e ascoltate i nastri, possono nascondere indizi importanti. Non vi dirò altro, voglio solo chinare la testa davanti al coraggio di quest’uomo e del suo team, che in un’era dove i videogiochi prendono per la mano tutti e sospingono verso la fine a forza di pacche sul sedere, hanno deciso di intraprendere una via ormai ritenuta del tutto sbarrata dalla maggior parte dell’industria. Arrivate dove dovete arrivare e capirete perché si è sparsa la voce (inesatta) che il codice review fosse privo di finale.
Il sottile confine tra follia e genio Kojima, con The Phantom Pain, se l’è proprio magnato. Dopo oltre 60 ore di giocato sarete lì a spulciare ogni dettaglio, a spremere le meningi come non mai e a cercare di calarvi nel suo labirintico cervello. La maggior parte di voi ne uscirà probabilmente molto turbata, vi ho avvertito.
Poco da recriminare infine sull’impatto visivo del titolo. La regia di Kojima fa molto durante le cutscene, ma viene aiutata dal Fox Engine, che pur risultando ben meno eccezionale delle aspettative e mostrando una scalabilità secca in alcuni scorci, fa la sua porca figura in azione, specialmente quando si parla di vegetazione, luci e tessuti. The Phantom Pain guadagna in seguito altri punti grazie alle trovate autoreferenziali del suo regista, al taglio quasi televisivo dato dai credits alla fine di ogni missione, e dai dettagli infilati in tutte le scene, che alle volte vogliono dare un messaggio preciso e altre sono forse messi lì solo per stuzzicare i più attenti. Perfino la musica giova del misto di abilità e squilibrio dei Kojima Productions, un insieme di canzoni accuratamente selezionate e piazzate in rare radio sparse negli accampamenti, che fanno da contorno a un doppiaggio tra i migliori che abbiamo mai sentito in un videogioco. Sutherland è indubbiamente ottimo nei panni di Venom Snake, ma i suoi comprimari non sono da meno, e molto del pathos di alcune scene è merito della loro interpretazione.
Siete ancora qui? Bravi, allora vi meritate anche di avere qualche informazione sulla longevità del gioco.
Noi abbiamo giocato per circa 60 ore, e le abbiamo trovate a malapena sufficienti per capire come concludere il tutto. 70 o 80 ore di gioco sono sicuramente una cifra più realistica, a riprova di quanto mastodontica sia quest’opera, ma considerando l’elemento gestionale, gli attacchi online e il gameplay estremamente variabile del titolo, pensare a più di cento ore di longevità non è certo un’esagerazione.
– Mastodontico
– Zeppo di momenti dal grande impatto, a partire dal prologo
– Gameplay ricchissimo, che offre molteplici approcci
– Elementi gestionali interessanti
– Folle ed estremamente coraggioso sul finale
– Fase centrale della narrativa non all’altezza degli altri capitoli
– Mancanze strutturali nella seconda parte della campagna
– L’interfaccia e la Mother Base potevano esser gestite meglio
– L’IA presenta ancora qualche debolezza
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è un gioco capace di sconvolgere le basi stesse dei Metal Gear e ogni preconcetto da videogiocatore, ma al contempo rappresenta uno squarcio nella mente di Kojima di rara chiarezza. Questo gioco è imperfetto, geniale, frustrante, imprevedibile, ambizioso, vanesio, mastodontico, e impressionante. Questo gioco è Kojima. E che la cosa accada in modo positivo o negativo, vi farà impazzire. Ha scatenato in me odio e furore in alcuni momenti, gioia e ammirazione in altri, ma tirando le somme ho capito di adorarlo e credo sinceramente che possa dare molto al panorama. Anche con i suoi difetti. Anche con le sue follie.
Provatelo, è davvero il caso di farlo.