Eccomi qui, ancora una volta a scrivere in prima persona. E’ una cosa che capita piuttosto di rado, in verità, e di solito è dovuta a due fattori: o vado in overdose da zuccheri e mi dimentico il formato classico degli articoli del sito, o gioco a qualcosa che mi colpisce così nel profondo da costringermi a scrivere un pezzo personale.
So che potrebbe sembrare un espediente per portare più lettori a leggere la review, ma vi assicuro che non è così, anzi, non amo moltissimo rivolgermi direttamente a chi legge. Non che non mi piaccia discutere esplicitamente con chi ci segue, tutt’altro, ma è da quando avevo dieci anni che dimostro l’empatia di un manichino di pietra, e in quanto burbero redattore peloso non svelo con facilità la mia parte “emozionale” mettendola nero su bianco.
Oggi però credo proprio sia il caso di farlo, perché ho appena giocato a uno di quei titoli che dà senso al videogiocare, e quando parlo di “senso” non intendo solo significato, ma anche sensibilità. Uno di quei titoli che dimostrano quante strade si possono percorrere nello sviluppo dei videogiochi, e quanto possano essere importanti fattori spesso ignorati bellamente da gran parte dei prodotti pensati per il grande pubblico.
Ho giocato a Gone Home.
Fatelo anche voi.
Non c’è bisogno di avere paura
Le discussioni sulla nobilitazione del media videogioco e sulla sua possibilità di essere una forma d’arte mi hanno sempre fatto sorridere. Non ho mai ritenuto particolarmente sensato un discorso dove il punto focale è decidere se una cosa può far parte o meno di un insieme che non è oggettivamente quantificabile. Le discussioni sulla narrativa, invece, mi hanno sempre incuriosito. L’argomento si basa parzialmente sui gusti della persona, ma ha dei contorni più definiti, delle linee guida sulle quali si può effettivamente disquisire e che hanno sempre visto il videogioco come piuttosto limitato.
I videogame dopotutto presentano delle forzature non indifferenti quando si tratta di storia. L’obbligo dell’interattività costringe ad inserire la propria narrativa all’interno di canoni e barriere concettuali, spesso legati a generi le cui caratteristiche sono parzialmente o completamente definite. Questo costringe quasi sempre a piegare le vicende al gameplay, a concentrarsi su elementi che con la storia hanno poco a che fare o addirittura a volte stonano, al solo scopo di donare qualche minuto di azione in più a chi ha in mano il pad o il mouse. Va poi considerato il controllo parziale dello sceneggiatore sul prodotto, visto che lo sviluppo è un lavoro di gruppo, e non sempre i game designer seguono alla lettera le indicazioni di chi congegna la storia mentre stanno programmando.
Insomma, di problematiche ce ne sono tante, e ammetto di far parte anch’io del gruppo di coloro che ritengono ci siano delle debolezze significative nella strutturazione narrativa dei videogiochi. Si potrebbe parlare per ore dell’argomento, ma è il caso di fermare il mio divagare. Questo non è un saggio, è la review di Gone Home, pertanto chiuderò la parentesi chiarendo che sì, pur non difendendo a spada tratta le trame videoludiche, non faccio parte dei pessimisti cosmici. Ritengo che i videogiochi possano approcciare la narrativa in modo diverso da cinema e libri, e non per questo necessariamente inferiore. In particolare, i videogame possono contare su un punto di forza che negli altri media risulta alquanto ristretto: la narrativa ambientale.
Gone Home sfrutta proprio questa forma narrativa al meglio, inserendo il giocatore in un contesto tanto semplice quanto ben ideato. Si parte nei panni di una ragazza di nome Katie, tornata a casa dopo un viaggio all’estero. Arrivati davanti alla familiare porta dell’abitazione, la prima cosa che balza all’occhio è un messaggio di Sam, la sorella della protagonista, che le chiede di non cercarla e la rassicura precisando che, prima o poi, si rivedranno.
Non è solo Sam ad essere sparita, anche dei genitori delle due ragazze pare non esserci traccia in casa. Le stanze sono deserte, la maggior parte delle luci sono spente o soffuse, e fuori impazza una tempesta da record. A voi non resterà che scoprire cosa è successo e soprattutto perché, vagando per le stanze in cui avete sempre vissuto e cercando indizi o testimonianze degli ultimi giorni passati.
Sembra una premessa da survival horror, vero? Gli sviluppatori se ne sono sicuramente resi conto, e hanno giocato molto sulla cosa. Camminando lentamente tra le stanze accenderete sempre le luci, sia per osservare meglio ciò che vi circonda che per la paura di avvistare qualcosa di oscuro e ignoto tra i corridoi. Magari vedrete muoversi delle ombre sospette, o avrete un sobbalzo davanti a una lampadina che si brucia all’improvviso, ma deriva tutto dalla vostra paranoia di videogiocatori. Non deve esserci necessariamente un mostro dietro l’angolo, non è un obbligo che ci sia una minaccia. Gone Home cavalca questa nozione con classe, dimostrando a chi lo prova che la normalità nei videogames si trasforma automaticamente in qualcosa di anormale, perché a questo ci hanno abituati.
La verità è che il lavoro di The Fullbright Company si distingue del tutto da ogni altro progetto, e percorre una strada ben definita ed estremamente originale, che immerge il giocatore nell’ambientazione come pochissimi giochi sono riusciti a fare in passato.
Guarda con gli occhi, guarda col cuore
Parlavo di narrativa ambientale poco fa, ovvero di narrazione ampliata con le locazioni, della capacità del team di sviluppo di aggiungere profondità e vitalità al mondo in cui l’utente viene trasportato tramite luoghi, elementi del paesaggio, interattività degli oggetti. Questa forma di narrativa è a mio parere quella più indicata in assoluto per i videogiochi, quella che brilla nel migliore dei modi quando a chi sperimenta la storia viene donata la capacità di interagire attivamente con il mondo in cui si trova. Gone Home è un perfetto esempio di come usarla senza abusarne: rivela i suoi segreti al giocatore attraverso l’osservazione, concedendogli solo di spostare ed esaminare gli oggetti, raccogliere alcune chiavi e appunti importanti nello zaino, e nient’altro. Di stanza in stanza scoprirete cosa è successo nella vostra casa, perché i vostri genitori non sono lì ad accogliervi a braccia aperte, e perché vostra sorella è sparita, il tutto pian piano, con un ritmo che si adegua alla vostra volontà di osservare, esplorare e leggere le varie note sparse per casa, accompagnati dall’allegra voce di vostra sorella Sam che narra gli avvenimenti dalle pagine del suo diario.
Già, perché in questo titolo la protagonista non è Katie, bensì sua sorella, una giovane anticonformista ed estremamente sveglia, che si racconta durante l’esplorazione, spiegando alla sua compagna d’infanzia cosa le è successo durante la sua assenza.
Non ci sono enigmi, non ci sono pericoli, non ci sono forzature. Si esamina tutto attentamente, si legge ciò che si trova, e si mettono insieme i pezzi del puzzle, accompagnandosi di tanto in tanto con qualche cassetta musicale trovata nei paraggi e inserita nel primo lettore trovato.
Il lavoro fatto dagli sviluppatori è da manuale, l’armonia con cui i testi e le varie sezioni della casa si fondono è eccezionale, l’atmosfera magnetica e ricca di tensione, anche se di tensione non dovrebbe essercene. E’ dovuto anche alla maestria con cui i testi sopracitati sono scritti e inseriti nel contesto. Gli sceneggiatori hanno dimostrato una variabilità incredibile negli stili, legati all’autore/autrice della nota trovata, e sono riusciti a tratteggiare finemente le personalità di ogni membro della famiglia di Katie, al punto che ora della fine pare di essere lei, di conoscere davvero i suoi genitori, e di provare realmente affetto per Sam, la cui voce resta il motore trainante della storia per tutto il suo svolgimento.
Incredibile è anche il modo in cui la trama tratta temi estremamente delicati con un tatto invidiabile, e approfitti di eventi comuni a centinaia, forse migliaia, di ragazzi in tutto il mondo per mostrare con chiarezza uno spaccato di vita media americana, con le sue tragedie, i suoi demoni e le sue piccole gioie. Un lavoro di scrittura certosino, davanti a cui uno come il sottoscritto, che scrive per lavoro, non può che chinare il capo in segno di rispetto.
Ci sarebbe anche da parlare del comparto tecnico, ma poco importa. Voi sappiate solo che la grafica è piacevole e ben ottimizzata, la casa di Katie ricca di cose da scoprire, l’interpretazione di Sam straordinaria, e i tocchi di classe moltissimi.
Ah, il gioco dura solo un’ora e mezza.
Spaventati? Male, perché in quei 90 minuti c’è più di quanto si trova in molti titoli da 20 e passa ore, e non viverli sarebbe un vero peccato. Vi perdereste uno dei giochi più maturi, geniali e appassionanti mai creati. Gone Home riesce ad essere diverso persino in questo.
I videogiochi sono cresciuti. Sono più maturi, variegati, e, pur mantenendo sempre un bel po’ di bambinesca ingenuità o tendenza all’esagerazione, sono ormai capaci di giocarsela alla pari con qualunque cosa, senza paura o bisogno di essere accettati. Gone Home non è l’unica dimostrazione di questo, ma è una delle migliori: è un’opera semplice, semplicissima, eppure brillante e capace di colpire subito al cuore. E’ una magnifica fusione di dialoghi scritti alla perfezione e narrativa ambientale ben studiata. E’ l’equivalente videoludico di quei film che nessuno conosce, ma la cui originalità ribalta completamente il concetto di cinema e trapassa i grandi blockbuster come una piccola spada ben affilata. Quei film che avrebbero cambiato le carte in tavola con un po’ di pubblicità in più, ma gli spettatori hanno mancato per un soffio. Solo che noi siamo videogiocatori, in simbiosi costante con la rete, quindi queste cose non passano inosservate con la nostra fame costante di novità e cambiamento. E’ un bene, dico sul serio, perché Gone Home non si perderà per strada, tutti lo potranno raggiungere e provare, e molti potranno imparare da ciò che gli sviluppatori di The Fullbright Company hanno fatto. Forse ne prenderanno esempio, forse faranno tutt’altro, ma almeno acquisteranno un po’ di coraggio di osare, ed è questa la vera linfa vitale di un qualunque settore.
I videogiochi sono cresciuti, e io sono sempre più contento di lavorare con loro.
Forse ve l’ho già detto, ma è il caso di ripeterlo un’altra volta. Ho giocato a Gone Home.
Fatelo. Anche. Voi.